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I misteri della Banca di Dio

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    I misteri della Banca di Dio

    Ecco un articolo di Ettore Livini, nell’inserto Affari e finanza di Repubblica di lunedì 29 giugno 2009. Per chi volesse approfondire, c’è un libro (Vaticano Spa) di Gianluigi Nuzzi, uscito da poco, che parla dei segreti politico-finanziari del Vaticano. Ne ha combinate di cotte e di crude…


    5 miliardi di patrimonio in gestione. Più di una tonnellata d’oro custodita nei caveau. Tante opere di bene (non a caso si chiama Istituto per le opere di religione) ma anche un curriculum vitae fatto di buchi neri ed enigmi mai chiariti, dai rapporti con Sindona al ruolo nel crac Ambrosiano fino alla maxi-tangente Enimont. Lo IOR, la banca del papa, è uno dei misteri meglio custoditi della storia del Vaticano e di quella mondiale. Il suo compito, in teoria, è semplice: gestire lo sterminato patrimonio della Chiesa e i proventi dell’Obolo di San Pietro, dirottandone una parte verso i più bisognosi in ogni angolo del globo. Ma non solo: dal 1942, anno della fondazione come azienda a scopo di lucro, s’incarica di raccogliere soldi da selezionatissimi clienti privati. A condizione che “la destinazione parziale o futura” dei loro risparmi custoditi in anonimi depositi esentasse – come recita lo statuto – sia riservata alla carità. Quest’area grigia è stata negli ultimi 50 anni la croce e la delizia del Vaticano. Delizia perché ha garantito un flusso costante di ingenti capitali: a metà anni ’90 un terzo dei 1400 conti correnti “privati” aveva un saldo superiore al miliardo di lire. Croce perché proprio dall’abuso di questi fondi – anche da parte di religiosi, il vescovo Paul Marcinkus in testa – sono nati gli scandali più gravi della travagliata storia finanziaria della Santa Sede.
    Lo IOR è un’anomalia nel panorama del credito mondiale. Ha un solo sportello nel seicentesco Torrione Niccolò V, dentro le mura leonine del Vaticano, sopra il Palazzo Apostolico. Ha un centinaio di dipendenti e un bancomat in latino (“Carus expectatusque venisti”, “Benvenuto”, è il messaggio della prima schermata). Gli atout della “Banca di Dio” però sono ben altri: i depositi non sono tassati. Le convenzioni con lo Stato italiano ne fanno una sorta di banca offshore in pieno centro a Roma. Bastano buone conoscenze, un’ampia disponibilità pecuniaria e la promessa di girare parte dei rendimenti in beneficenza (tanto con l’esenzione fiscale si rientra subito dell’investimento) per riuscire ad aprire un conto.
    L’anonimato e la riservatezza sono garantiti dal fatto che il Vaticano non ha firmato alcun accordo di collaborazione giudiziaria con il resto del mondo, pur avendo aderito in maniera volontaria ai principi del GAFI, il gruppo internazionale di azione finanziaria contro riciclaggio e terrorismo. Niente intercettazioni, niente rogatorie, niente perquisizioni. Una sorta di zona franca (in teoria a fin di bene) della finanza mondiale in cui abuso ha però aperto dagli anni ’60 veri e propri buchi neri dove si sono inabissati, spesso sparendo all’estero, centinaia di milioni di dubbia provenienza. La governance dello IOR, che per statuto è una banca a fine di lucro, è fondata su una sorta di sistema duale che fa capo direttamente al Papa. La supervisione etica e politica è affidata alla Commissione cardinalizia, formata da cinque porporati nominati direttamente dal Santo Padre. La gestione è in mano invece al consiglio di sovrintendenza, scelto dai cardinali, che delegano a un prefetto la supervisione operativa. Quest’organismo è presieduto da vent’anni da Angelo Caloia, arrivato al vertice dell’istituto nel 1989 per ricostruirne l’immagine dopo lo scandalo dell’Ambrosiano.
    Lo IOR non ha bilanci pubblici. E anche il tradizionale resoconto finanziario annuale del Vaticano, documento che riporta dati molto parziali, non consente in alcun modo di capire quale sia la reale consistenza degli affari della banca. L’unico spiraglio sui segreti patrimoniali dell’istituto è così un documento interno del 1996 reso noto da Gianluigi Nuzzi nel suo recentissimo libro “Vaticano Spa” (Edizioni Chiarelettere). A fine ’95 la banca aveva un capitale di 450 milioni di euro circa e oltre 1400 conti di gestione con depositi per circa tre miliardi di euro ai valori attuali. Non solo. Nei caveau del bastione di Niccolò V c’è un vero e proprio tesoro, frutto di donazioni ed eredità o come semplici beni in affidamento: un censimento ad opera dei revisori di Price Waterhouse del 1994, rivelano gli archivi di monsignor Renato Dardozzi raccolti da Nuzzi, segnala la presenza di 1,6 tonnellate d’oro e titoli di stato per due milioni di euro. Curzio Maltese nel suo libro “La questua, quanto costa la Chiesa agli italiani” (Feltrinelli), stima in 5 miliardi di euro il flusso di capitali gestito oggi dall’unico sportello dell’istituto.
    Questo immenso patrimonio viene gestito da torrione Niccolò V esattamente come in una qualsiasi banca. Lo IOR opera su tutti i mercati mondiali con una sofisticata strategia d’investimento: già dal ’94, sul balcone di fronte al Cortile del Maggiordomo era stato installato un piccolo decodificatore satellitare che consentiva ai trader di comprare e vendere in diretta titoli su tutti i listini del globo.
    Il velo di segretezza che copre i numeri dell’Istituto per le Opere di Religione rende quasi impossibile stabilire quanto guadagni davvero. Di sicuro, comunque, non poco. Nel 1994 Caloia segnala in una lettera a Giovanni Paolo II che lo IOR è in grado di girare alle casse personali del Pontefice sotto forma di dividendo 72,5 miliardi di lire. Nel 1995 a fronte di 231 miliardi di utile lordo, il Santo Padre ne incassa 78,3, scrive Nuzzi, che poi destinerà in maniera autonoma alle esigenze di carità della Chiesa nel mondo. Mentre ai cinque cardinali della commissione che sovrintende alle attività dello IOR – spiega Caloia in una lettera al cardinale Angelo Sodano, all’epoca segretario di stato del Vaticano – è stata corrisposta “una somma individuale di 50 milioni per le loro opere di bene”.
    Dove finiscono i soldi generati dalla molto terrena attività bancaria dello IOR? In larghissima parte, naturalmente, a finanziare l’attività della Chiesa. Un gran numero dei conti aperti nella banca leonina fanno capo a ordini ecclesiastici, congregazioni, conventi. Patrimoni alimentati da donazioni, eredità e oboli che i trader di Dio fanno girare sui mercati di tutto il mondo. Passando proventi e interessi alle missioni, ai preti e alle suore titolari dei depositi, mentre l’utile finale generato va direttamente nelle disponibilità del socio di riferimento, oggi Benedetto XVI.
    L’istituto però ha conquistato in passato gli onori (si fa per dire) della cronaca quasi solo per i misteri – mai realmente chiariti – che hanno coinvolto parte dei fondi custoditi nei suoi caveau. Dall’alleanza con Michele Sindona, incaricato da Paolo VI di riorganizzare le partecipazioni a metà anni ’60, alle spericolate triangolazioni tra il bancarottiere di Patti (in stretti rapporti con la mafia), il cardinale di Cicero, Paul Marcinkus e Roberto Calvi che hanno costretto lo IOR a chiudere la partita del crac Ambrosiano girando ai liquidatori un assegno da 242 milioni di dollari. Fino alla maxi-tangente Enimont, un centinaio di milioni di euro transitati dal Torrione Niccolò V e girati poi a politici italiani e al misterioso conto della Fondazione Spellman, su cui aveva la firma congiunta Giulio Andreotti. Misteri rimasti tali in virtù dell’extraterritorialità finanziaria dello IOR e di una collaborazione concessa spesso con il contagocce a chi cercava di far luce su queste vicende. Il denaro, si sa, è sterco del diavolo. Ma se utilizzato bene e nel nome di Dio – come ha detto in passato il primate filippino Sin a Caloia – “può anche diventare un buon fertilizzante”.
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